sul Testamento biologico

LA VITA E LA FINE DELLA VITA IN STATO VEGETATIVO
LA VITA O IL VIVENTE?

Nelle discussioni pubbliche e negli interventi più autorevoli viene proclamato il valore assoluto della vita e l’obbligo morale di rispettare e difendere la vita dal suo inizio alla sua fine naturale. Si parla della vita come fosse realtà per se sussistente, realtà che trascende il soggetto che vive.
In verità si può parlare di vita solo in quanto di fatto esistono organismi viventi.
Il valore primario, o assoluto, che si deve riconoscere e difendere, è il soggetto vivente nella sua realtà esistenziale e nella sua specificità. Siamo chiamati e impegnati a interrogarci non tanto circa “la vita” in sé, quanto piuttosto circa i viventi. “Questo“ soggetto vivente, hic et nunc, qui adesso, questa “persona” vivente, nella sua specificità esistenziale, va difeso, salvaguardato, rispettato.
Il problema che ci poniamo riguarda una materia che richiede di evitare le astrazioni e di considerare l’oggetto, il compito e il fine propri della medicina e della morale.
La realtà di cui la morale e la scienza medica devono prendersi cura è il “vissuto” personale del soggetto vivente. La morale e la medicina, per loro compito, devono preoccuparsi di comprendere e aiutare il soggetto vivente nella soluzione dei problemi di malattia, aggravamento della malattia, irreversibilità della malattia, nella situazione concreta del singolo caso.
Chi afferma principi con la pretesa di farne un’applicazione generalizzata in tutti i casi, senza misurarsi con la specificità delle situazioni di fatto e con il vissuto della persona che soffre, con la complessità delle sue esperienze, della sua sensibilità, dei suoi convincimenti, dei suoi sentimenti e delle sue relazioni familiari, è in contrasto con il metodo e con il compito e le finalità della morale e della medicina. (“Moralisti sfortunati” dei quali scriveva J. Maritain ).
Qual è il valore assolutamente primario e fondamentale? Non è forse il bene della persona, la sua dignità, la sua possibilità di autodeterminazione, la sua salute, la possibilità di scegliere e darsi un significato per la sua esistenza? E, allora, non è un valore assoluto il rispetto della coscienza personale che, libera e informata, fa una scelta per il futuro nel timore che possa capitare un doloroso evento che produca un danno cerebrale che riduce in stato vegetativo?
La persona che anticipatamente dichiara di non volere né alimentazione forzata né idratazione forzata, in situazione di vita solo vegetativa, semplicemente esprime la volontà, in actu consapevole, di accettare che la sua vita “vada naturalmente verso il suo epilogo“ , cioè vada naturalmente spegnendosi. A dare il via al percorso, che poi naturalmente va verso lo spegnimento, è stato l’evento che ha prodotto il danno cerebrale irreversibile: l’evento traumatico e drammatico non mai voluto.

Non possiamo non considerare il timore e il pericolo che un fraintendimento della riflessione sopra esposta apra la porta alla pratica dell’eutanasia tout-court.
Questa preoccupazione assillante rende irremovibili molti uomini di chiesa e gruppi del parlamento italiano (condizionati dall’influenza che le autorità ecclesiastiche hanno sull’elettorato ) nel rifiutare la riflessione sopra esposta.
Si scioglie il nodo di tale preoccupazione se si vuole lealmente riconoscere quella chiara distinzione che sta nei sentimenti, nelle intenzioni e nella realtà delle cose. Quando una persona, a un certo punto della sua grave inguaribile e irreversibile malattia e/o stremata dal deperimento organico, dice: “lasciatemi andare“, “basta, lasciatemi stare, lasciatemi in pace“, che cosa esprime? L’accettazione o il desiderio di una conclusione naturale pacifica della sua esistenza. C’è chi, pregando, invoca la liberazione dal suo corpo mortale. Chi ha vissuto l’esperienza di assistere con assiduità ammalati (forse anche propri familiari), come sopra indicati, conosce questa realtà, dolorosa e commovente insieme.
Nel caso di una persona che, quando era consapevole e libera, ha dichiarato di non voler subire trattamenti di alimentazione e idratazione forzate in eventuale condizione di vita in stato vegetativo, la sua dichiarazione significa semplicemente “lasciate che il percorso della mia vita giunga al suo epilogo naturale”; per il credente significa ancora di più: “lasciate che io vada a cominciare una nuova vita, la Vera Vita in Dio“. E’ evidente che obbedire a questa volontà non significa dare la morte, ma accettare l’arrivo della morte già scritto nel processo biologico provocato e innescato dall’evento traumatico accaduto.
Nella situazione di stato vegetativo irreversibile, intervenire per introdurre in modo artificiale alimenti direttamente nello stomaco, non solo senza il consenso ma contro la volontà di una persona, non è una oggettificazione del suo corpo?
Non equivale a far violenza alla persona che non vuol subire quel trattamento?
A quale scopo, infatti, quel trattamento? E quale effetto esso sortisce? Far continuare ad oltranza (anche per molti anni) la vita vegetativa del corpo già martoriato di una persona che con quel corpo non può più vivere da persona consapevole e libera, e che ha già accettato il naturale spegnimento o il naturale trapasso ad Altra Vita, trapasso già sancito dall’evento traumatico e già inscritto nella dura e dolorosa realtà delle cose.
Coloro che, come medici e genitori o familiari, avendo la responsabilità di rispondere dell’infermo e di farsene carico, ottemperano alla sua volontà, agiscono rettamente e meritano il più grande rispetto e il più grande riguardo. Agendo così, nel compimento di un dovere che la coscienza detta loro, medici e familiari pagano un prezzo non immaginabile, un prezzo psicologico affettivo esistenziale che segna la loro vita, un costo incomunicabile, solo interiormente e silenziosamente sofferto.

Del tutto diversamente, invece, nel caso di situazione nella quale vi sia ragionevole prospettiva di recupero di vita consapevole. Qui consegue l’obbligo, appunto, di ripristinare e garantire quel valore assoluto che è il bene della persona, cioè, in questo caso, la guarigione, o comunque il miglioramento delle condizioni di vita.

Consideriamo molto utile alla riflessione citare tre testi di grande autorevolezza nella dottrina morale.
1. La “Lettre pontificale au Congrès de la FIAMC “ inviata dal Segretario di Stato card. Villot a nome del Papa Paolo VI ai medici cattolici il 3 ott. 1970, pubblicata sull’Osservatore Romano il 12-13 ott. 1970. Merita di essere letta per intero. Qui ne riportiamo il seguente brano: “In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare, il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo“.
E’ stato osservato che queste importanti affermazioni dicono no al cosiddetto “accanimento terapeutico” e che alimentazione-idratazione forzate non devono essere considerate terapie. Perché no? Perché non sono medicamenti che curano e combattono la malattia? Infatti, appunto, purtroppo no; non curano, non attenuano il male e non danno alcun sollievo al malato; il quale, se potesse percepire, avvertirebbe maggior disagio. Qual è il contenuto di questo tipo di alimentazione? E in quale modo viene effettuata? A chi compete definire la natura di questi interventi? Che cosa hanno di “naturale” e di “normale e ordinario” questi interventi? Non è accanimento la prosecuzione a tempo indeterminato di un intervento che intrude nel corpo di una persona che non vuole tale intrusione?
2. Il Catechismo della Chiesa Cattolica alla voce n.2278.
3. L’ articolo del Prof. don Giuseppe Trentin, docente di teologia morale e preside della stessa facoltà nella Pontificia Università a Padova, pubblicato su La Voce dei Berici, settimanale della diocesi di Vicenza, l’8 marzo 2009.
Lo riportiamo in immagine alla fine del testo. Condividiamo pienamente la conclusione come è formulata nelle ultime otto righe dell’articolo. Essa è anche la proposta del prof. G.Trentin. Proposta che sottoscriviamo e raccomandiamo al legislatore.

LA PREOCCUPANTE LEGGE APPROVATA DAL SENATO ITALIANO RI-GUARDO IL COSIDDETTO TESTAMENTO BIOLOGICO E RIGUARDO IL TRATTAMENTO DI IDRATAZIONE E ALIMENTAZIONE FORZATE IN VITA VEGETATIVA
Il disegno di legge sul testamento biologico provoca preoccupazione soprattutto per due questioni: per quanto è scritto circa l’alimentazione e l’idratazione forzate e per le eccessive formalità richieste nella dichiarazione della propria volontà e la non sufficiente garanzia di rispetto della medesima.
E’ necessario ricordare l’art.32 della Costituzione italiana: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo….” (nello stato di vita vegetativa, idratazione e alimentazione forzate perpetuano uno stato di malattia inguaribile) “…Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario …”
A chi compete di definire la natura dei suddetti interventi su un corpo umano in stato vegetativo? Ovviamente e necessariamente solo alla scienza medica, in generale, e ai medici curanti e operatori, in particolare. Ad essi, infatti, compete di riconoscere le condizioni che possono comportare questo trattamento e stabilirne la procedura; ad essi incombe l’obbligo di conoscere le conseguenze, quanto meno immediate e dirette, dell’intervento stesso e valutarne la sopportabilità fisiologica e l’efficacia nel paziente. Non la morale, né la politica, né un parlamento, né un governo, né un’autorità religiosa possono aver facoltà di formulare definizioni circa questi interventi, in quanto essi sono rigorosamente estranei alla loro competenza e alla loro responsabilità, e perciò ogni loro pretesa di pronunciamento definitorio sarebbe infondata, non giustificata, irrilevante.
Alla luce del buon senso e del senso della realtà, chi osserva da vicino come si decidono e come si svolgono tali interventi li riconosce pacificamente come “trattamento sanitario”. Il termine scelto dall’Assemblea Costituente va rispettato. Esso è esatto chiaro inequivoco e adeguato, ma, saggiamente, non tecnico e non specialistico. Poiché gli interventi di cui parliamo entrano nella categoria del “trattamento sanitario“ in conformità con lo spirito e la lettera della Costituzione, è legittima la scelta del cittadino consapevole che ha deciso di rifiutarli.


CONCLUSIONE E PROPOSTA
Il legislatore deve difendere il cittadino, in modo ancor più rigoroso quando questi è infermo o incapace di difendersi da sé o di decidere liberamente per se stesso, da ogni eventuale abuso, da ogni eventuale sopraffazione, da ogni danno che possa derivargli dall’arbitrio altrui.
Ma la realtà della fine della vita è un vissuto così intimo, complesso,spesso drammatico, e diverso caso per caso, per cui la legislazione dello stato deve fermarsi di fronte al confine proprio dell’ambito di competenza della coscienza, della responsabilità professionale dei medici ai quali il paziente si è affidato o ai quali la famiglia lo ha affidato, di fronte al mistero del male del dolore e della morte, di fronte alle incognite e agli interrogativi senza risposta.

Perciò invitiamo fiduciosamente a rimeditare e a ricomporre la formulazione della Legge.

Una buona legge, in questa materia, deve caratterizzarsi per i seguenti punti.
1. Definire il cosiddetto testamento biologico sul piano giuridico e riconoscerne la validità vincolante nei casi di irreversibilità del coma o dello stato vegetativo con incurabilità del male.
2. Richiedere che ogni caso venga esaminato da un consulto di tre medici (due specialisti + il medico personale o di famiglia), consulto che si dovrà concludere con un giudizio circa le condizioni patologiche dell’infermo. Conseguentemente a tale giudizio, con dichiarazione congiunta, i medici dedurranno se, in quel caso, le condizioni patologiche siano quelle previste per la validità vincolante del testamento biologico. Se lo sono, consegue indiscutibilmente la legittimità della attuazione della volontà del testatore.
3. Evitare l’eccesso delle formalità, le complicazioni e le iterazioni per la scrittura del testamento biologico.
4. Riconoscere che anche la dichiarazione orale della personale e consapevole volontà circa la fine della vita può essere valida ed efficace se la veracità e la veridicità della testimonianza, la probità dei testimoni, la lealtà e la confidenza dei testimoni con la persona inferma, sono verificate e provate dal giudice ordinario.
5. Ma sarà almeno sufficiente che una migliorata Legge recepisca la saggia proposta formulata dal docente di morale della Pontificia facoltà di Teologia di PD, prof. don Giuseppe Trentin.

ULTERIORE CONCLUSIONE

 

Oggi dobbiamo modificare la proposta. Riteniamo che l'impostazione più coerente sia la seguente.

Per effettuare o protrarre un intervento di alimentazione forzata in caso di stato solo vegetativo permanente  occorre che il soggetto infermo abbia manifestato, quando era cosciente informato e libero, il suo consenso ad effettuare quel tipo di intervento o di trattamento.

L'interrogativo morale va posto riguardo la decisione di cominciare o protrarre il trattamento. 

"E' lecito iniziare questo trattamento ?"

"E' lecito protrarre questo trattamento una volta iniziato?"

Solo se c'è la speranza e la probabilità, clinicamente giustificate, di recupero e ripristino  delle funzioni cognitive e volitive della persona inferma, sarà lecito e giusto e doveroso iniziare trattamenti come nella fattispecie  sopra citata, anche se non è nota alcuna manifestazione della volontà dell'infermo.

Sarà  sempre e in ogni caso lecito se la persona inferma ha manifestato (quando era in grado di farlo) l'intenzione o la volontà di ricevere il detto trattamento comunque.

"E' lecito protrarre questo trattamento una volta iniziato?"

Solo fino a quando ragionevolmente sussista la probabilità di un esito felice.

 

RIPORTIAMO QUI IN IMMAGINE FOTOCOPIA DELL'ARTICOLO DEL PROF. TRENTIN SU "LA VOCE DEI BERICI".